Nessuno ti ha chiesto di scrivere un romanzo...
Ovvero, ricordarsi del perché lo fai. Un'estate di scrittura | Parte 4
Nei programmi iniziali, volevo dedicare il post n. 4 di questa “Estate di scrittura” a un argomento diverso; qualcosa sui personaggi, forse, o sulla creazione delle atmosfere e del world-building (due aspetti che più volte mi sono stati chiesti; sapete, essendo io una scrittrice di fantasy e tutte quelle cose lì*). Mi sono però resa conto che i post precedenti hanno delineato un certo fil rouge, più legato alla mentalità della scrittura che ad altri aspetti pratici… E che scrittrice sarei se non sapessi riconoscere quando una narrazione richiede un cambio dei piani iniziali?
(*mi dispiace per chi li aspettava! Ne parliamo in futuro, magari quando sono più avanti con la stesura del romanzo attuale.)
Ho deciso quindi di non spezzare il filo e di continuarlo invece con un tema un po’ tosto; giusto perché è metà agosto, quasi chiunque è in vacanza e le cose semplici da queste parti non ci piacciono. Cosa si fa quando l’entusiasmo cala, quando non sai più perché lo stai facendo, quando sembra che tutto il lavoro sia per niente? Parliamo, insomma, di quella cosetta infida chiamata motivazione.
Che tu sia al mare, a goderti il fresco o alla scrivania con un ventilatore puntato addosso, ciao. Ecco il solito Disclaimerino Importante ™️: questi post parlano del mio processo e del mio modo di vivere la creatività. Per qualcunǝ potranno essere utili, per un altrǝ no, perché magari avrà un’altra visione e un altro modo di fare le cose. Non c'è un unico modo di scrivere un libro e ancora meno un metodo giusto. C'è solo il metodo che funziona, e che funziona in quel momento.
L’incertezza che ti frega
Presente quella particolare ansietta che ti prende mentre aspetti una risposta/risultato/decisione importante, quando anche un esito negativo sembra preferibile a un’attesa che si dilata all’infinito? È tipica degli esseri umani. A quanto pare, il nostro cervello non è proprio stato progettato per far fronte all’incertezza, a maggior ragione se prolungata: ai suoi occhi, una sicura catastrofe è sempre migliore rispetto a un’eterna spada di Damocle.
Questa spasmodica ricerca di certezze si fa sentire anche nella scrittura; oserei dire che è forse uno dei principali motivi che stanno spesso dietro alla frustrazione e alla voglia di gettare le spugna.
Proprio perché siamo geneticamente programmatə per cercare sempre certezze, vorremmo credere che, se scriviamo così e se facciamo cosà, arriveremo senz’altro alla fine della stesura con un romanzo che venderà bene e che piacerà un sacco al pubblico per cui l’abbiamo pensato; e che, se qualcosa ha funzionato per Tiziə X, allora funzionerà anche per noi.
Peccato che non vada proprio così. La terribile verità è che puoi anche fare tutto nel modo “giusto”, seguire tutti gli step sul libretto di istruzioni, e comunque il romanzo potrebbe non venire fuori come ti aspetti; oppure potrebbe uscire nel momento sbagliato per il mercato, o non intercettare il giusto pubblico; o ancora potrebbe non essere capito e non darti il riscontro sperato. Potrebbe, insomma, “fallire”.
(Tra mille virgolette perché anche il concetto di “fallimento” meriterebbe un intero post a parte.)
I fattori che determinano la sorte e la ricezione di un romanzo da parte di chi lo legge sono tanti, sfaccettati e, nella maggior parte dei casi, assolutamente fuori dal controllo di chi il romanzo l’ha scritto. Cercare di controllare questi elementi, spesso con sforzi e dispendi titanici, è come voler svuotare un lago con un cucchiaino; ci provi e poi ti disperi, quando ti rendi conto che le cose non sono come avresti voluto. Lo vedo spesso guardandomi attorno: scrittorə frustratə perché non trovano il giusto spazio per la pubblicazione, scrittorə che hanno già pubblicato e cadono in spirali buie perché le aspettative non sono state soddisfatte, scrittorə che iniziano e poi mollano, che vorrebbero ma non riescono. Li vedo perché li riconosco: so cosa si prova, fin troppo bene.
Ecco quindi entrare in scena i pensieri negativi: non avere certezze su quale sarà la sorte del romanzo una volta finito (sarà mai finito?) tende a far tentennare su ogni singola scelta, o ancora peggio a insinuare il dubbio che, dopotutto, non ne valga davvero la pena. Quando il futuro di un progetto appare troppo lontano e nebuloso, è molto facile, soprattutto per chi è particolarmente insicurə, finire per farsi sopraffare dai meccanismi di difesa e preferire il disfattismo al rischio.
Da qualsiasi lato la si guardi, l’incertezza del risultato è una delle cose più difficili da accettare e da gestire. È anche, però, qualcosa da cui è impossibile scappare, perché sarà sempre, inevitabilmente, parte del processo di scrittura (e in generale di qualsiasi arte creativa).
Oltre a cercare di coltivare una difficile mentalità zen, cosa fare? L’unica cosa che a me abbia mai aiutato è fare lo sforzo di riaggiustare il focus e di concentrarsi solo su ciò che è effettivamente possibile controllare: la prossima parola, la prossima pagina, il prossimo capitolo; smettere, insomma, di ossessionarsi su un aleatorio “traguardo” e spostare le energie sul qui e ora, sull’atto di scrivere in quanto tale, ricercando il piacere nel processo ancor prima che nel risultato. Separare, insomma, ciò che è concreto e in nostro potere da ciò che è imperscrutabile e, a volte, solo rumore.
Prendersi sul serio… senza prenderla sul serio
Lo sappiamo: se vogliamo farlo in modo professionale, scrivere è un’attività che richiede impegno, che non si può improvvisare e che va presa sul serio. È vero. Il problema è che a volte… viene presa fin troppo sul serio.
Se l’idea di partenza è qualcosa del tipo “Questo romanzo deve cambiare il mondo e impattare per sempre chi lo leggerà“ o “Se il mio romanzo va male, addio crudele mondo della scrittura”… bisognerebbe un po’, come si suol dire, uscire e andare a toccare l’erba.
Qualche tempo fa mi sono imbattuta in una frase che mi è piaciuta molto: nessuno ti sta chiedendo di scrivere un libro.
Ok, magari a volte ci sono contratti di mezzo, o aspettative che si fanno sentire. Ma la verità? Se volessimo, potremmo dare forfait in qualsiasi momento. Perché nessuno sta aspettando il nostro romanzo come se fosse il Sacro Graal della letteratura; e il mondo continuerà, nel bene o nel male, a girare lo stesso anche se la nostra opera non vedesse mai la luce. Anzi, ci sono stati davvero grandi nomi che hanno smesso di scrivere (voglio dire: Harper Lee? O ancora: Winds of Winter, anyone?), eppure siamo ancora tuttə qui. (Cioè, il mondo va un po’ a scatafascio, ma non dipende dalla mancata pubblicazione del nostro magnum opus.)
Vi scoraggia? Io, invece, lo trovo immensamente liberatorio.
Come dice Gilbert in Big Magic:
Qualsiasi professione vi venga in mente - insegnante, medico, pompiere, custode, riparatore di tetti, allevatore, guardia del corpo, politico, lavoratore del sesso, persino il vaghissimo consulente - è più essenziale al mantenimento della comunità umana di quanto quella del romanziere sia mai stata e mai sarà. […] La creatività pura è qualcosa di meglio della necessità, è un dono. […] Forse non esprimerò sempre con successo la mia creatività, ma il mondo non finirà per questo. E se da una parte è verissimo che le critiche e il fallimento feriscono il mio prezioso ego, è pure vero che il destino delle nazioni non dipende dal mio prezioso ego.
[…] Il paradosso con il quale dovrete tranquillamente convivere se volete condurre una vita creativa soddisfacente fa più o meno così: “L’espressione creativa deve essere per me la cosa più importante del mondo (se desidero vivere da artista) e non deve avere la minima importanza (se ho a cuore la mia sanità mentale).”
Parlare di quanto sarebbe facile mollare e della sua mancanza di conseguenze in un post sulla motivazione può sembrare contro-intuitivo, ma io penso che aiuti molto a rientrare nella giusta prospettiva. Non siamo qui perché ce l’ha ordinato qualcuno, o perché dobbiamo; siamo qui perché ci porta gioia e perché scegliamo di farlo.
Scrivere un romanzo non è un obbligo, è qualcosa di meglio. È un dono che ogni giorno concediamo a noi stessə.
Il mito della costanza
Un altro motivo per cui la motivazione finisce spesso per tradirci penso che dipenda dalle eccessive aspettative che mettiamo sul concetto di costanza.
Forse proprio perché la costanza viene caldeggiata così spesso (pensiamo all’invito a “scrivere tutti i giorni", di cui tra l’altro parleremo nella prossima newsletter), ci aspettiamo due cose: che la costanza sia necessaria per tutto, motivazione compresa; oppure che la costanza sia una sorta di toppa magica, capace di sopperire ogni volta che ispirazione e motivazione vengono a mancare.
Il primo aspetto non è vero. Anzi, mi sento di dire che mantenere un livello costante di motivazione è abbastanza impossibile. Sia la creatività che la motivazione funzionano semmai come dei flussi: vanno e vengono in naturali alti e bassi, che per molte persone non hanno niente a che vedere con quelli di un ruscello tranquillo; anzi, sono semmai più simili a correnti fatte di picchi e cadute vertiginose, di valli stagnanti e risalite, di curve ritorte e buchi neri.
L’abitudine alla costanza può senz’altro aiutare a navigare questo fiume in piena; su questo, il secondo punto ha ragione. Ma non sempre è così. Aiuta quando i cali sono fisiologici, quando abbiamo le giornate no; quando sì, scrivere è difficile, ma abbiamo comunque un pozzo da cui attingere e le energie per farlo.
Se però le ragioni per la mancanza di motivazione sono più profonde - se il blocco è psicologico, o se il pozzo si è inaridito - la costanza può fare poco. In questi casi, è meglio fermarsi, premere su pausa, e pensare innanzitutto a come uscire dalla fossa o a come ricaricare quel pozzo, invece di continuare a strizzare acqua da una pietra.
Periodi simili possono anche essere ciclici, come la natura: c'è un tempo per la semina e uno per il raccolto. Non tutti i momenti (dell’anno, della nostra vita) sono fatti per essere produttivi allo stesso modo. Forse per non tuttə è così, ma io mi sono resa conto di funzionare meglio quando questi cicli li assecondo, invece di combatterli, e adatto il concetto di costanza ai flussi turbolenti che mi deve aiutare a navigare.
Se è un periodo in cui creare è più difficile, la costanza sarà anche solo lasciarmi ispirare e tenere la mente aperta alla ricezione di nuove idee; se è un periodo instabile, accetto di cambiare ogni giorno il tempo e le modalità dedicate a creare; se il periodo è particolarmente produttivo, cerco di accoglierlo e di usarlo senza preoccuparmi troppo di quando la vena finirà.
Sì, ma… in pratica?
Insomma, la motivazione può essere davvero infida: è irregolare, capricciosa e la prima a cadere davanti alle difficoltà. Di cali di motivazione, anche grandi, ne ho vissuti moltissimi, e anche se non mi sento di dire che “ne sono uscita” (non se ne esce mai davvero, temo), credo di aver pian piano scoperto un po’ di strategie che aiutano, all’occorrenza, a ritirarsi su. Alcune sono:
Ricordarsi di guardare sempre al prossimo passo, e non all’intera montagna ancora da scalare. Per farlo, è meglio darsi obiettivi piccoli e raggiungibili: un paragrafo, un dialogo, una scheda personaggio, 100 parole… è aumentare via via che lo spirito ritorna.
Crearsi dei promemoria dei propri successi, non importa quanto piccoli. Salvatevi le recensioni positive che più vi hanno fatto emozionare, i messaggi dellə lettorə che più vi hanno fatto dire: “forse sto facendo qualcosa nel modo giusto”; oppure fissatevi quella sensazione di benessere provata dopo aver finito un capitolo particolarmente ben riuscito. Usateli poi come una sorta di balsamo, nel momento del bisogno.
Trovare le proprie personali cheerleader. Parlo di quelle persone (spesso colleghə scrittorə) che sanno vedere il potenziale anche nelle tue bozze più grezze, e aiutarti ad andare avanti e tirarlo fuori; oppure, di chi sa sostenerti nei momenti di sconforto e aiutarti a rimettere le cose in prospettiva, con più chiarezza e meno negatività. Scrivere è un lavoro tremendamente solitario, e nessuno può davvero dirti come riuscirci al posto tuo, ma proprio per questo è importante circondarsi di persone pronte a risollevarti quando le cose si fanno dure.
Concedersi rispetto e gentilezza. È normale avere periodi no ed è normale non fare sempre tutto bene; non sono queste le cose che ci rendono meno validə.
Innamorarsi del processo, con le sue parti belle e quelle brutte, e goderselo giorno per giorno, invece di farsi ossessionare dal risultato.
Forse la più importante: concedersi il permesso di fallire. Se non ci diamo il permesso di fallire, non ci diamo neanche quello di esplorare nuove idee, di essere curiosə, di rompere barriere mentali auto-imposte e così via. Potrebbe essere il dono più liberatorio che ci concediamo.
Risorse e affini
Mi limito a due libri che ho già nominato in precedenza, ma di cui rinnovo sentitamente il consiglio per chi ha simili difficoltà: Big Magic di E. Gilbert e La via dell’artista di J. Cameron. Nella mia lista c'è anche On writing and failure di S. Marche, ma ancora devo leggerlo.
Questo post era emotivamente tosto, vero? Pieno di brutali verità. Ma ci stiamo avvicinando alla fine di questa serie, quindi era un po’ inevitabile. Voi avete strategie da consigliare per quando la motivazione tende a calare?
L’estate scribacchina si conclude tra due settimane, con un tema sempre molto gettonato: parleremo di tempo, e del delicato equilibrio tra scrittura e vita quotidiana.
✨ -Vale
Brutali verità da sottolineare e rileggere. Tra l’altro, questa serie ha dei cliffhanger notevoli, sono sempre molto curioso di leggere la prossima newsletter.